Perché in Italia è ancora impossibile parlare di educazione sessuale: riflessioni sullo stato del nostro Paese e sul futuro dei giovani

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Articolo di Valentina Cosmi

L’educazione sessuo-affettiva nel mondo ha una storia tutto sommato giovane: è stato infatti con l’avvento dell’Illuminismo che si sono creati quegli spunti di riflessione socio-pedagogici intorno alla vita sessuale dell’essere umano, poi più esplicitamente approfonditi alla fine dell’Ottocento grazie al grande clima di fermento sociale e culturale.

Questa attenzione alla vita intima dell’individuo ha avuto caratteristiche e peculiarità diverse a seconda dei periodi storici: durante la Rivoluzione industriale, ad esempio, a causa delle diverse questioni igienico-sanitarie, l’attenzione era rivolta principalmente alla profilassi venerea; successivamente, negli anni della nascita e della crescita del movimento femminista e quindi con la messa in discussione del valore procreativo, l’attenzione è stata posta principalmente verso le campagne legate al controllo delle nascite. In ogni caso, l’interesse è stato di tipo prettamente medico, seguendo il filone della “igiene”, da un lato, e del disagio mentale dall’altro (es. per l’inquadramento di comportamenti ritenuti “perversi” o “devianti”).

Tuttavia, se nel mondo la storia dell’educazione sessuale ha poi avuto un andamento di crescita costante (pensiamo, ad esempio, che in Paesi come la Svezia questa è attiva nelle scuole addirittura dal 1956, in Germania a partire dal 1968 e così via in moltissimi altri Paesi), in Italia continuiamo invece ad assistere ad una certa staticità se non addirittura ad andamenti regressivi e involutivi. Il dibattito si concentra ancora sull’idea erronea del rischio di una precocità nei comportamenti sessuali in presenza di un insegnamento scolastico che tratti tali tematiche; o, addirittura, si continua a parlare della necessità di delegare alla famiglia il compito di un’educazione sessuo-affettiva, anziché pensare ad un inquadramento che sia istituzionalizzato dagli organi centrali.

Oggi, invece, sappiamo bene che tutte le ricerche internazionali, così come l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), da anni non solo hanno dimostrato quanto una buona educazione sessuo-affettiva sia predittiva dell’adozione di comportamenti sicuri verso la sessualità, ma quanto sia proprio la scuola il luogo istituzionale privilegiato per la messa in atto di insegnamenti curricolari di questo tipo. Inoltre, è ormai consolidata l’evidenza scientifica secondo cui l’assenza di una buona educazione sessuo-affettiva in età scolare, possa essere un fattore di rischio per l’assunzione di comportamenti non sicuri, discriminatori, violenti (temi, questi, particolarmente attuali e delicati in questo momento).

Storicamente, in Italia, per molto tempo si è puntato il dito contro l’ostruzionismo cattolico, facendo riferimento alla decennale lotta tra le spinte liberali-laiche e quelle cattoliche come responsabili di questo ritardo legislativo. I tentativi (vani) di portare avanti un inquadramento dell’educazione sessuale sono iniziati nel 1902 con la richiesta al ministro della Pubblica Istruzione per l’istituzione nell’ultimo anno delle scuole di un corso di igiene sessuale e sociale; questi tentativi sono andati poi avanti con il I Congresso sulla questione sessuale nel 1909 e con il progetto di legge del 1910, che metteva l’accento sulla necessità di realizzare lezioni di igiene sessuale agli adolescenti delle scuole.

Lo stallo presente nel nostro Paese ha portato ad un divario sempre maggiore rispetto al resto d’Europa, dove invece il concetto di sessualità ha iniziato ad evolversi rapidamente già a partire dagli inizi del Novecento. Tale cambiamento di prospettiva è stato legato ad una serie di fattori sociali e culturali, così come al lavoro di studiosi del calibro di S. Freud o di H. Havelock Ellis, per citarne solamente alcuni, che permisero il passaggio da una visione biologica della sessualità ad una psicodinamica (nel caso di S. Freud) e attribuendo alla pulsione sessuale funzioni fisiologiche di riproduzione e funzioni “spirituali” (nel caso di H. Havelock Ellis).

Insomma, già dai primi anni del novecento si andavano delineando le basi per una concezione diversa della sessualità che avrebbe poi consentito l’elaborazione di modelli di educazione sessuale pensati come qualcosa che, per essere efficace, doveva calarsi nella realtà contemporanea e da questa prendere spunto per affinare tecniche e strategie di intervento. È stato solamente grazie alle esperienze sul campo che l’OMS ha potuto stilare quelli che oggi sono riconosciuti come gli standard fondamentali per un’educazione sessuale olistica. Questi comprendono sette punti fondamentali:

  1. avere un approccio interattivo che preveda il reale coinvolgimento dei destinatari degli interventi;
  2. essere continuativa nel tempo, dal momento che ogni essere umano nasce e muore accompagnato dalla propria sessualità;
  3. prevedere una collaborazione con partner/figure professionali interni ed esterni la scuola;
  4. essere modellata in base all’età e al contesto di riferimento;
  5. prevedere la collaborazione con genitori e con tutta la comunità d’appartenenza;
  6. essere sensibile alle tematiche di genere (prevedere cioè un’educazione alle differenze di genere);
  7. prevedere la partecipazione attiva dei giovani (come ad esempio negli interventi di Peer Education).

Con il delinearsi di questi standard e l’evoluzione dei modelli di educazione sessuo-affettiva, negli ultimi 20 anni, è stato sempre più evidente come fosse indispensabile proporre non più interventi prettamente informativi e preventivi ma modelli che fossero in grado di attivare processi di elaborazione di competenze cognitive e personali, accanto allo sviluppo di quelle abilità emotive indispensabili per vivere la realtà circostante. Per fare un esempio banale, la stragrande maggioranza degli adolescenti oggi conosce l’importanza dell’utilizzo del preservativo ma solamente una percentuale più bassa di questi lo utilizza. È fondamentale in tal senso chiedersi perché questo avvenga. Molti anni di ricerche hanno permesso di capire come il problema fosse da rintracciarsi nella mancanza di quegli strumenti emotivi in grado di mettere l’individuo, giovane e alle prime esperienze sessuo-affettive, nelle condizioni di stare “sufficientemente comodo” nella possibilità di proporre ad un/una coetanea di avere rapporti protetti. Ogni adulto sa bene quanto il compito sia arduo!

Concludendo queste brevi riflessioni, mentre nel mondo si continua a pensare modelli di educazione sessuo-affettiva via via più efficaci, in grado di rispondere alle esigenze della popolazione e, in particolare, degli adolescenti, in Italia nonostante a partire dagli anni ’60 si siano sviluppate realtà che hanno organizzato e promosso corsi di sessuologia rivolti a medici, insegnanti e assistenti sociali, le iniziative in materia restano di fatto interventi di tipo personale, interni alla scuola, o interventi del privato sociale, spesso sollecitati dalla scuola stessa. Non solo, infatti, non esiste ancora una legislazione in materia ma neppure, come in Giappone, Indonesia, India, Corea del Sud, Thailandia (etc.) direttive governative sistematiche per l’insegnamento di argomenti attinenti l’educazione sessuale nelle scuole. Sembra allora lecito chiedersi quale sia il futuro di un Paese che ancora oggi preferisce investire risorse in termini economici e di tempo per interventi basati sull’urgenza o rivolti a “recuperare/riparare” situazioni quando ormai è tardi o quando si sono già verificati episodi di cronaca drammatici. A pagarne le spese, come troppo spesso accade, sono i più giovani, adolescenti e pre-adolescenti, che non vengono sostenuti nel delicato compito di divenire se stessi in una realtà sociale e politica che sappia accompagnarli fornendo loro gli strumenti per portare avanti in modo sufficientemente sano questo processo.

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