Articolo di Marta Giuliani
Fin dall’infanzia facciamo esperienza di come la libera espressione delle nostre emozioni si scontri spesso con il rifiuto, la disapprovazione, l’umiliazione e la punizione. Questo conflitto interno tra libertà e costrizioni ha delle conseguenze sullo sviluppo identitario femminile e sulla sua struttura corporea, che viene a lungo irrigidita e spesso mortificata. Infatti, quando la capacità di autoespressione di una persona è bloccata nella sua interazione tra energie interne e stimoli esterni, la conseguenza è quella di ridurne la spontaneità e quindi la motilità energetica tipica dello sviluppo.
Per secoli, e in parte ancora oggi, alla donna è stato detto “come” dovesse essere e “come” si sarebbe dovuta idealmente comportare. Le è stato “destinato” un ruolo che molto spesso richiedeva una mortificazione dell’espressività “naturale” del corpo a favore di uno spazio che rispondesse a prospettive di riproduzione, accudimento e sopravvivenza del nucleo familiare.
Il corpo femminile è stato da sempre considerato una vetrina sociale di ideali e valori dell’epoca e della cultura in vigore. L’ideale estetico non è dunque un criterio assoluto e immutabile o figlio dell’epoca dei social media ma rappresenta una costruzione socio-culturale che muta in relazione al trasformarsi delle mode e dei costumi.
Se pensiamo solo agli ultimi secoli, ad esempio, dal Rinascimento all’Ottocento la formosità è sempre stata considerata un simbolo di bellezza e ricchezza. La morbidezza, valorizzata e raffigurata nell’arte e nella letteratura, è stata orgogliosamente esibita come sinonimo di agiatezza economica e sociale. Questa visione del corpo femminile è stata poi sostituita negli anni ’20 da un’ideale di fisicità magra, androgina (la cosiddetta garçonne), con seno e vita adolescenziali e fianchi stretti. La donna ha iniziato a condurre una vita più dinamica e pratica e il suo corpo è diventato espressione dell’aspirazione all’uguaglianza e parità tra i sessi. Nel periodo immediatamente successivo, caratterizzato dal totalitarismo fascista, è poi tornata in auge una figura con forme prosperose, robusta e forte, simbolo di una madre e una moglie sufficientemente solida e stabile. Il corpo femminile come veicolo della propaganda politica è divenuto in questo periodo talmente evidente che nel 1931 partì una vera e propria campagna che ordinava ai giornali di eliminare tutte le immagini che mostravano figure femminili snelle e dalle caratteristiche androgine. Nei decenni successivi, più o meno ogni 10-15 anni, si è verificata una “rivoluzione estetica” costringendo la donna a definire il proprio sé corporeo in una rappresentazione sociale in continuo e veloce mutamento.
Nel 2007, Adrian Michaels sul Financial Times pubblicò un articolo dal titolo “Naked Ambition”, in cui denunciava la presenza ossessiva di un corpo femminile-oggetto all’interno delle pubblicità e dei media italiani. Nel nostro Paese, a partire dagli anni ’90, si è affermato – in un continuo crescendo – un ideale estetico della magrezza, indissolubilmente associato a sicurezza in sé, determinazione, autoaffermazione sociale.
Nel 1997 Barbara Fredrickson e Tomi-Ann Roberts introdussero per la prima volta il concetto di Teoria dell’Oggettivazione per spiegare questi fenomeni secondo i quali il corpo della persona (o sue parti) vengono separati dal resto della persona e trattati come se fossero in grado di rappresentarla. Secondo le autrici l’attenzione viene posta unicamente su una fisicità, pensata e costruita per piacere agli altri, a discapito di una visione di sé integrata e unitaria in cui aspetti come l’emotività, l’intelligenza e le ambizioni/sogni/desideri personali svaniscono.
La donna tenderà dunque ad interiorizzare lo sguardo oggettivante dell’esterno, ovvero ad anticipare le aspettative sociali e maschili su di sé, ponendo un’attenzione spesso ossessiva al proprio aspetto fisico, iniziando ad adottare su di sé la prospettiva di un potenziale osservatore: come mi guarderebbero e mi giudicherebbero gli altri? In questi casi, che possono avere esiti psico-patologici importanti, vittima e agente del processo di oggettivazione coincidono al punto che in letteratura si parla di self objectification (auto-oggettivazione), come di una strategia che la donna mette in atto per gestire le pressioni ricevute dall’ambiente esterno provando ad anticiparle per gestire al meglio il peso emotivo di sentirsene vittime inconsapevoli.
Ovviamente questa modalità di auto-percepirsi può rappresentare un forte fattore di rischio per la salute psico-fisica della donna, soprattutto poiché c’è poca consapevolezza e disponibilità ad ammettere che questo modo di relazionarsi al sé non esprime una scelta volontaria ed è socialmente-dipendente. Ne consegue un forte incremento: di azioni ossessive di controllo sul proprio corpo e sulla propria alimentazione; di vissuti di vergogna, angoscia e malessere generale; di sintomatologie quali disordini alimentari, disturbi d’ansia e disfunzioni sessuali.